Roel Meekop, come ogni artista sensibile, si fa molte domande sull’utilità della propria attività, sulla sua capacità di incidere nella realtà. Il suo restare inerme, di fronte alla guerra, è lo stesso del pittore minimalista Ad Reinhardt, che negli anni ’60 cercò un astrattismo geometrico, del tutto separato dai sentimenti personali. Puro colore, forma e razionalità. Reinhardt creò una cartolina con scritte contro la guerra, e anche contro la presenza della guerra nell’arte, per ribadire l’estraneità dalla realtà delle proprie opere. Meekop si è ispirato quasi per contrasto a Reinhardt, in quanto il fatto stesso che un’opera d’arte comunichi di volersi emancipare dal parlare di guerra, si contraddice perché la nomina, dunque si lega ad essa.
Roel Meekop, classe 1963, prima di manipolare il suono, ha studiato arti visive in Olanda, a Rotterdam. La musica è arrivata in un secondo momento, ed è indubbiamente legata a concetti visual. Nell’album “Viva in pace”, uscito per la portoghese Crónica Records, la ricerca sul suono è indirizzata da queste riflessioni sulla consapevolezza di non poter fare nulla contro la guerra, ma anche di cercare di rendere astratta la propria creazione musicale.
Afferma di avere paura del pensiero radicale di Reinhardt, perché, dice, se l’arte arriva davvero ad un punto definitivo, dopo averlo raggiunto che si fa? Si smette di creare, perché si è giunti alla fine dell’arte? Quindi, in “Viva in pace”, per quanto il suono sia elaborato nella sua forma d’onda, senza riferimenti extramusicali, Meekop ha tenuto i propri sentimenti come spunto di partenza. Poi non so se, senza averlo saputo dalle sue dichiarazioni, noi avremmo potuto ravvisare tali sentimenti, in questi suoni cangianti.
L’album è suddiviso in quattro tracce. Nella prima, possiamo notare un estremo “pampottaggio” (da pan pot), cioè il suono che dapprima si sposta tutto sulla sinistra (si nota soprattutto con le cuffie), poi tutto sulla destra, per un bel po’ di secondi. Gradualmente, il passaggio nelle orecchie si fa sempre più repentino, come un motore. Nella seconda traccia, ascoltiamo più rumori attorno allo stesso suono di base, che si fa sempre più levigato e luminescente, come una superficie che fa scintille tramite un saldatore.
“Viva in pace III”, il terzo capitolo, è scandito all’inizio dalle lancette di un orologio a muro. Così, facciamo caso ai secondi che scorrono. Accanto alla loro regolarità, si aggiungono gradualmente sempre più rumori irregolari, schiocchi di plastica, legni, disturbi bassi come vibrazioni di vecchie caldaie. A un certo punto, le lancette svaniscono, lasciandoci soli con gli impulsi elettronici, via via sempre più spigolosi.
Queste prime tre tracce durano rispettivamente 15, 13 e 10 minuti circa. L’ultima invece dura 4’49”, ed è fatta con polveri di rumore per i primi tre, per poi passare ad un lontano e suggestivo scampanellio, un loop di campane sempre più deformato dalla “corruzione” elettronica del suono. In chiusura, riconosciamo il verso di una tortora.
Il processo è freddo; il che, va specificato, non è un male. La freddezza è un antidoto all’estrema espressività, che se per alcuni può essere catartica e purificatrice, per altri può essere ulteriore fonte di stress. Come quando sei triste, e ti ascolti canzoni tristi sperando di sfogarti, e invece poi sei più triste di prima. L’astrattismo astrae, ti sottrae. E se non possiamo attivamente agire contro il male, possiamo almeno non sostenerlo, sottrarci. (Gilberto Ongaro)
via Music Map