“Passeports” reviewed by Ondarock

Passeports
Dopo le “Parcelles”, il francese Mathias Delplanque estremizza la sua tecnica mista di field recordings “narrativi” e ambient digitale nei “Passeports”, un’eccezionale prosecuzione post-cosmica degli “Airports” di Brian Eno.

Il primo “Passeport” calibra il tono delle sue “cosmicomiche”. Una scenografia sia subliminale che ipnotica (o, meglio ancora, onirica) espone con coerenza le possibilità liriche della drone music. Quelle di Delplanque non sono sculture di suono, ma immagini di suono; il compositore, una volta addentratosi quasi inerte nella composizione, sceglie di frantumare la narrazione in quadri da film di Cronenberg, o in una possibile colonna sonora per gli inetti di Italo Svevo.

Il secondo è una bruma alla Angelo Badalamenti, pure sostenuta da una sorta di elettricità sotterranea, che porta a un duetto statico tra rombi di rumori concreti ed elegia glaciale, fino alla loro unione trascendente. La stessa elegia pervade il terzo, ma il processo la porta a mutare via via da scenario polifonico a fanfara funerea, a vero panopticon di suono, come in una fuga in stile Harold Budd, per poi – di nuovo – capitolare in un micro-caos di campioni e stridori elettronici.

Un uragano di suoni Stockhausen-iani smorzati apre il sesto; un’allucinazione colossale volteggia nell’aria; bruscamente regredita a landa di microeventi, la piéce rimane sostenuta da un miraggio d’organo fluttuante. Quegli stessi microeventi chiudono il disco in una landa di frammenti indecifrabili, che appaiono e scompaiono. Il continuo addensamento di macro (droni galattici) e micro (click elettronici) conduce agli ultimi due minuti, i più irrazionali di tutta l’opera, una sorta d’illusione sonora tra l’estasi diafana dei My Bloody Valentine e i peggiori incubi dei corrieri cosmici tedeschi.

Dove dimostra di avere poco in comune con la stabilità degli “Airports” (a parità di non-musica e di non-ascolto) è nel quinto, che sopraggiunge dopo il minuto esatto di cinguettii del quarto (un lontano anelito alla naturalezza), uno stacco atonale di quinte “gassose” giustapposte.

Campionato in tre città – Nantes, Lille e Dieppe – e avvampato da una serie di meticolosi addensamenti disturbanti, il lavoro è la testimonianza di un autore esoso, finanche capriccioso, cocciutamente alla ricerca di un segreto inestricabile persino a lui stesso, ma del quale condivide, con l’ascoltatore, portamenti poetici e fascino d’impatto. Il Delplanque dei “Passeport” è il più eliotiano che si possa udire, ed è quello delle vacche grasse, come testimoniato anche dai 30 minuti di field recordings avanzato e di frattali infiniti di “Call Center” (download digitale, 2010), uno stupefacente corollario alla sua estetica presente. 7/10 Michele Saran

via Ondarock

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