È trascorso circa un mese da quando, in questo stesso spazio, lodavamo la vitalità dei musicisti e delle etichette portoghesi. Proporre nuovamente come disco top, a così breve distanza di tempo, un altro frutto proveniente dall’estrema propaggine atlantica del continente rappresenta la conferma di un entusiasmo tutt’altro che passeggero.
Volendo iniziare con qualche osservazione generale, sembra che la Crónica di Porto stia pian piano sorpassando la Sirr di Lisbona, con un programma affatto simile, in un ipotetico ruolo di etichetta guida, anche se va detto che non esiste una vera rivalità fra i diversi marchi, e fra i vari musicisti, quanto piuttosto uno spirito di collaborazione. Lo dimostrano la firma di Paulo Raposo, uno dei boss della Sirr, su una delle precedenti uscite Crónica e la presenza di Manuel Mota in questa nuova realizzazione. Si tratta di una situazione da seguire con interesse laddove, ad esempio dalle nostre parti, continuano a prevalere gli interessi di bottega – vorrei sbagliarmi, ma, purtroppo, mi sembra che sia così – su quelli generali, ma veniamo tosto al ‘gruppo’ e al disco in questione.
@c, il cui “Hard Disk†è stato il primo titolo pubblicato dalla Crónica, è un duo formato da Pedro Tutela e Miguel Carvalhais, entrambi coinvolti nell’etichetta anche sotto l’aspetto gestionale. Spesso la scarna formula è allargata da altre presenze, quali possono essere Pedro Almeida, che per un certo periodo ha fatto parte in pianta stabile del gruppo, o l’artista visuale viennese Lia. Alla fine del 2003, in occasione di alcune performance determinanti nella fattura di questo CD, sono intervenute altre collaborazioni. Le date sono quelle del 5 Ottobre a Palamela (EME festival), del 27 Novembre a Londra (Atlantic Waves festival) e del 28 Novembre a Huddersfield (Ultrasound festival), e i musicisti aggiuntisi nelle tre occasioni sono, rispettivamente, Manuel Mota e João Hora, Andy Gangadeen e Vitor Joaquim. Le registrazioni provenienti da questi tre concerti, rielaborate dal duo, rappresentano la materia prima che va a costituire “v3â€. Questi, però, non può essere considerato un disco live, dal momento che la ricostruzione, gli incastri e il montaggio, non sequenziale, effettuati dal duo in studio sono fattori altrettanto influenti sulla qualità del risultato finale.
Sono i cluster ferruginosi di Manuel Mota a rendere tipico il primo brano di un disco che, per il resto, è mal definibile, o mal riconducibile ad un genere musicale specifico. Su una intelaiatura di base, che possiamo genericamente bollare come elettronica, si innestano germi che possono essere liberati da un’estetica free come da nozioni di ripetitività . Fra pulsazioni di mucose techno e filamenti di ragnatele jazzy, emerge, si libra direi, lo splendido 3° brano dove, su un tessuto ritmico che fa pensare a un tappeto di tablas o di percussioni suonate a mano nuda, le voci manipolate suonano come una citazione del wyattiano “The End Of An Ear†(ma va’ un po’ a sapere se conoscono quel disco).
Bella è la qualità sonora e notevole la strutturazione, e come risultante c’è un gioco di ‘colori’ vibrante e teso, al cui interno i cambi di direzione arrivano puntualmente al momento giusto, che riesce sempre a tenere sveglia l’attenzione. Perfino ruffiani, ma non in modo spudorato, i due @c riescono a farmi digerire anche cose che non ho mai digerito.